La teoria dei 7 secondi

Se è corretta la teoria dei sette secondi di Linda Blair e cioè che bastano 7 secondi per farsi un’idea di chi incontriamo per la prima volta, diventa di vitale importanza fare bella figura durante quei 7, brevissimi, secondi. 
Tic tac. Tic tac. Tic tac.

 

First date is coming…

In un contesto in cui la comunicazione tende al digitale ed è fondamentale avere uno snippet che sia performante, delle slide coinvolgenti, una presenza social che converta, come faccio a fare “bella figura” quando, finalmente, quel benedetto prospect entra nel mio cerchio della fiducia diventando cliente e, soprattutto, come faccio ad ammaliarlo durante il nostro primo incontro?

Anni di studio, corsi di formazione, workshop, webinar e chi più ne ha più ne metta [grazie n.d.r.] ci hanno insegnato che durante gli incontri di lavoro, veri e propri first date a tutti gli effetti, tutto parla di noi. Tutto narra la nostra storia. Per questo prestiamo la massima attenzione all’abito, all’atteggiamento, al sorriso (e vai di collutorio e filo interdentale), alle parole, insomma a tutte quelle tecniche che ci permettono di farci sentire al top, di presentare in modo convincente noi stessi, le nostre competenze e la nostra attività.

Stretta di mano. Si accomodi, prego. E poi? Poi c’è quel fatidico momento in cui tutti sono seduti intorno a un tavolo, o in contrapposizione (noi vs loro) o in formazione friendly (misti), ecco, quel fatidico momento in cui ci si scambia i biglietti da visita. Un gesto formale che serve sia a rompere il ghiaccio con la presentazione ufficiale, sia a iniziare la contrattazione, ma soprattutto serve a far vedere in quale campionato giochi.

 

Il biglietto di presentazione

Esistono pillole di letteratura dedicate al biglietto da visita, la prima volta che ne si accenna è in Francia, in un sonetto di Bernard De La Monnoye del 1716

“Les doigts les moins savants me taillent de la sorte,
Sous mille noms divers je parois tous les jours.
Aux valets étourdis je suis d’un grand secours:
Le Louvre ne voit point ma figure à sa porte.”

Mentre la prima apparizione italiana è nel Cavalier Giocondo di Carlo Goldoni, del 1755

“Partendo da Bologna, facendo a lei ritorno,
in visite una volta spendeva tutto il giorno:
ora con i biglietti supplisco a ogni impegno.
Ah! I Francesi, i Francesi hanno il gran bell’ingegno!"

In epoca più recente la più alta testimonianza del fatto che il biglietto da visita sia sinonimo di status si ha nella scena del film tratta da American Psyco, il romanzo di Breat Easton Ellis. Non sono quindi l’unica a pensare che il biglietto da visita abbia una funzione importante durante i meeting.

Nella nostra vita professionale quotidiana quante volte agli incontri di lavoro, dopo essere state contattate da un possibile cliente, Tessa e io ci accomodiamo intorno al tavolo ed ecco, arriva il fatidico momento. Il nostro interlocutore prende in mano il biglietto da visita. Lo tocca, lo ruota, lo gira sottosopra. Poi commenta: “Ah… si vede che siete creative!” con un tono di voce da cui traspare un leggero mix di indivia e stupore.

Quindi, diciamolo, il biglietto da visita è uno strumento di presentazione a tutti gli effetti. Da sempre lo considero tale anche grazie al fatto che il mio stampatore di fiducia (e ogni designer che si rispetti ne ha uno) nei preventivi li nomina ancora oggi “biglietti di presentazione”. Questo la dice lunga, sia sull’età dello stampatore [che comunque non è Gutenberg n.d.r.] sia sulla funzione dello strumento. Ma allora perché è così poco considerato e ci si investe così poco?

 

La bellezza sta nelle piccole cose.

Un biglietto da visita racconta di me, di quello che faccio (i miei hard skill) e, se ho prestato la dovuta cura e attenzione, parla anche di come lo faccio (i miei soft skill). Un biglietto da visita è uno strumento meraviglioso: una sintesi tra personalità e status.

Se fossi George Clooney (oltre a far felice le mie socie) direi “What’s else?”. In 85x55 mm dice chi sei, cosa fai, per chi lavori e lascia anche il modo di contattarti. Una strizzata d’occhio finale. Ed è questo che un biglietto da visita deve fare, è questo il suo sporco lavoro: deve essere pratico, funzionale e leggibile. Ma in un mondo interconnesso e veloce deve anche essere assolutamente bello. O meglio, ben progettato.

 

Materiali.

Quando parliamo di un biglietto da visita parliamo di un oggetto che ha una peculiarità unica e cioè che passa di mano in mano. È qualcosa di personale come una stretta di mano, qualcosa con cui in primis ho un approccio tattile. La sua struttura materica è quindi fondamentale per generare in me piacere o repulsione. E anche tanto altro.

Un biglietto da visita, prima di tutto lo tocco. Poi lo leggo. E quindi pensiamo bene al materiale in cui lo vogliamo fare e anche a tutte le sfaccettature dello stesso, perché sarà la prima cosa che il mio interlocutore percepirà. Una sensazione che si sedimenterà nel suo cervello. Detto questo la prima domanda è: in che materiale lo voglio? Lo voglio di carta? Cartone? Tessuto? Legno? Metallo? Policarbonato? Insomma, se lavoro in un ambito innovativo (la classica start up digitale) beh, mi aspetto qualcosa di diverso da un biglietto di carta.

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Peso.

Il discorso sul materiale non finisce qui, perché a questo si deve aggiungere il peso e il formato. Sul peso (e qui entro a gamba tesa) usatene uno importante. Che ci sia qualcosa da toccare. Non quei biglietti da visita che richiamano una stretta di mano senza personalità, molle. La consistenza è importante, nella vita come nelle presentazioni.

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Formati.

Sul formato, beh, possiamo lasciarci andare… fermo restando che il biglietto da visita viene di solito infilato nel portafogli o in tasca (o nel cosiddetto porta biglietti da visita). Quindi possiamo essere creativi, ma essendo uno strumento di lavoro porta dentro di sé, in maniera intrinseca, un concetto di funzionalità che non dev’essere dimenticato dal progettista, anzi dev’essere valorizzato per diventare la vera e propria sfida.

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Tecniche di stampa.

Ogni materiale ha le sue specifiche, che saranno nobilitate da tecniche di stampa adatte a “far parlare” il materiale. Importante è che anche in questo caso il progetto tenda a nobilitare il tipo di comunicazione che sottostà al progetto. Attenzione: nobilitare non vuole necessariamente dire impreziosire, ma è la conseguenza più coerente possibile con chi sono e cosa faccio. Un consiglio: siate creativi. Osate.

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E poi? Che cosa ci scrivo?

Questo è un altro capitolo. Quello che scrivo dipende molto da ciò che voglio far passare di me. Logo, nome, mansione e recapiti sono il must have del biglietto da visita, ma poi c’è tutto il resto che parla di noi. Non solo quello che scrivo ma come lo scrivo e dove soprattutto lo posiziono nello spazio del biglietto. Ecco, anche in questo caso vi consiglio di osare. Di rendere indimenticabile il momento in cui qualcuno prenderà in mano il vostro biglietto da visita e ci giocherà con le dita.

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Costo.

I biglietti da visita possono essere anche molto costosi: il mio consiglio è quello di trovare un giusto equilibrio tra costo, comunicazione e funzionalità. è inutile avere un biglietto da visita up to date se poi si hanno remore a darlo perché “caspita, è un investimento da 5,00 € cad.”.

 

Il corollario dei 10 secondi

Se è corretta la teoria dei sette secondi di Linda Blair, se ne può desumere un interessante corollario: quando diamo a qualcuno il nostro biglietto di presentazione (provate a cronometrare voi stessi) l’attenzione che gli viene dedicata va dai 5 ai 10 secondi. Per raggiungere i 10 secondi ci vogliono il materiale, il peso, il formato, la stampa e il contenuto giusti. Un secondo ciascuno, insomma.

Ma, come cantava il trio (già all’epoca passatello) Morandi-Ruggeri-Tozzi, “Si può dare di più”, perché il biglietto di presentazione deve far nascere una domanda da parte del cliente, una domanda non prevista dal tradizionale copione degli incontri lavorativi, che ci permetta di avere ai suoi occhi fin da subito una personalità distintiva.

Proprio come, quando si incontra una persona per la prima volta, dopo essersene fatti un’idea (vale a dire, come ormai sappiamo, dopo 7 secondi), si è spinti ad approfondire domandando qualcosa di personale oppure no.

 

 Hai bisogno di dare nuova linfa ai tuoi biglietti da visita e sistemare la tua identità?

Allora scrivimi!

 

 

 

La teoria dei 7 secondi

Se è corretta la teoria dei sette secondi di Linda Blair e cioè che bastano 7 secondi per farsi un’idea di chi incontriamo per la prima volta, diventa di vitale importanza fare bella figura durante quei 7, brevissimi, secondi. 
Tic tac. Tic tac. Tic tac.

 

First date is coming…

In un contesto in cui la comunicazione tende al digitale ed è fondamentale avere uno snippet che sia performante, delle slide coinvolgenti, una presenza social che converta, come faccio a fare “bella figura” quando, finalmente, quel benedetto prospect entra nel mio cerchio della fiducia diventando cliente e, soprattutto, come faccio ad ammaliarlo durante il nostro primo incontro?

Anni di studio, corsi di formazione, workshop, webinar e chi più ne ha più ne metta [grazie n.d.r.] ci hanno insegnato che durante gli incontri di lavoro, veri e propri first date a tutti gli effetti, tutto parla di noi. Tutto narra la nostra storia. Per questo prestiamo la massima attenzione all’abito, all’atteggiamento, al sorriso (e vai di collutorio e filo interdentale), alle parole, insomma a tutte quelle tecniche che ci permettono di farci sentire al top, di presentare in modo convincente noi stessi, le nostre competenze e la nostra attività.

Stretta di mano. Si accomodi, prego. E poi? Poi c’è quel fatidico momento in cui tutti sono seduti intorno a un tavolo, o in contrapposizione (noi vs loro) o in formazione friendly (misti), ecco, quel fatidico momento in cui ci si scambia i biglietti da visita. Un gesto formale che serve sia a rompere il ghiaccio con la presentazione ufficiale, sia a iniziare la contrattazione, ma soprattutto serve a far vedere in quale campionato giochi.

 

Il biglietto di presentazione

Esistono pillole di letteratura dedicate al biglietto da visita, la prima volta che ne si accenna è in Francia, in un sonetto di Bernard De La Monnoye del 1716

“Les doigts les moins savants me taillent de la sorte,
Sous mille noms divers je parois tous les jours.
Aux valets étourdis je suis d’un grand secours:
Le Louvre ne voit point ma figure à sa porte.”

Mentre la prima apparizione italiana è nel Cavalier Giocondo di Carlo Goldoni, del 1755

“Partendo da Bologna, facendo a lei ritorno,
in visite una volta spendeva tutto il giorno:
ora con i biglietti supplisco a ogni impegno.
Ah! I Francesi, i Francesi hanno il gran bell’ingegno!"

In epoca più recente la più alta testimonianza del fatto che il biglietto da visita sia sinonimo di status si ha nella scena del film tratta da American Psyco, il romanzo di Breat Easton Ellis. Non sono quindi l’unica a pensare che il biglietto da visita abbia una funzione importante durante i meeting.

Nella nostra vita professionale quotidiana quante volte agli incontri di lavoro, dopo essere state contattate da un possibile cliente, Tessa e io ci accomodiamo intorno al tavolo ed ecco, arriva il fatidico momento. Il nostro interlocutore prende in mano il biglietto da visita. Lo tocca, lo ruota, lo gira sottosopra. Poi commenta: “Ah… si vede che siete creative!” con un tono di voce da cui traspare un leggero mix di indivia e stupore.

Quindi, diciamolo, il biglietto da visita è uno strumento di presentazione a tutti gli effetti. Da sempre lo considero tale anche grazie al fatto che il mio stampatore di fiducia (e ogni designer che si rispetti ne ha uno) nei preventivi li nomina ancora oggi “biglietti di presentazione”. Questo la dice lunga, sia sull’età dello stampatore [che comunque non è Gutenberg n.d.r.] sia sulla funzione dello strumento. Ma allora perché è così poco considerato e ci si investe così poco?

 

La bellezza sta nelle piccole cose.

Un biglietto da visita racconta di me, di quello che faccio (i miei hard skill) e, se ho prestato la dovuta cura e attenzione, parla anche di come lo faccio (i miei soft skill). Un biglietto da visita è uno strumento meraviglioso: una sintesi tra personalità e status.

Se fossi George Clooney (oltre a far felice le mie socie) direi “What’s else?”. In 85x55 mm dice chi sei, cosa fai, per chi lavori e lascia anche il modo di contattarti. Una strizzata d’occhio finale. Ed è questo che un biglietto da visita deve fare, è questo il suo sporco lavoro: deve essere pratico, funzionale e leggibile. Ma in un mondo interconnesso e veloce deve anche essere assolutamente bello. O meglio, ben progettato.

 

Materiali.

Quando parliamo di un biglietto da visita parliamo di un oggetto che ha una peculiarità unica e cioè che passa di mano in mano. È qualcosa di personale come una stretta di mano, qualcosa con cui in primis ho un approccio tattile. La sua struttura materica è quindi fondamentale per generare in me piacere o repulsione. E anche tanto altro.

Un biglietto da visita, prima di tutto lo tocco. Poi lo leggo. E quindi pensiamo bene al materiale in cui lo vogliamo fare e anche a tutte le sfaccettature dello stesso, perché sarà la prima cosa che il mio interlocutore percepirà. Una sensazione che si sedimenterà nel suo cervello. Detto questo la prima domanda è: in che materiale lo voglio? Lo voglio di carta? Cartone? Tessuto? Legno? Metallo? Policarbonato? Insomma, se lavoro in un ambito innovativo (la classica start up digitale) beh, mi aspetto qualcosa di diverso da un biglietto di carta.

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Peso.

Il discorso sul materiale non finisce qui, perché a questo si deve aggiungere il peso e il formato. Sul peso (e qui entro a gamba tesa) usatene uno importante. Che ci sia qualcosa da toccare. Non quei biglietti da visita che richiamano una stretta di mano senza personalità, molle. La consistenza è importante, nella vita come nelle presentazioni.

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Formati.

Sul formato, beh, possiamo lasciarci andare… fermo restando che il biglietto da visita viene di solito infilato nel portafogli o in tasca (o nel cosiddetto porta biglietti da visita). Quindi possiamo essere creativi, ma essendo uno strumento di lavoro porta dentro di sé, in maniera intrinseca, un concetto di funzionalità che non dev’essere dimenticato dal progettista, anzi dev’essere valorizzato per diventare la vera e propria sfida.

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Tecniche di stampa.

Ogni materiale ha le sue specifiche, che saranno nobilitate da tecniche di stampa adatte a “far parlare” il materiale. Importante è che anche in questo caso il progetto tenda a nobilitare il tipo di comunicazione che sottostà al progetto. Attenzione: nobilitare non vuole necessariamente dire impreziosire, ma è la conseguenza più coerente possibile con chi sono e cosa faccio. Un consiglio: siate creativi. Osate.

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E poi? Che cosa ci scrivo?

Questo è un altro capitolo. Quello che scrivo dipende molto da ciò che voglio far passare di me. Logo, nome, mansione e recapiti sono il must have del biglietto da visita, ma poi c’è tutto il resto che parla di noi. Non solo quello che scrivo ma come lo scrivo e dove soprattutto lo posiziono nello spazio del biglietto. Ecco, anche in questo caso vi consiglio di osare. Di rendere indimenticabile il momento in cui qualcuno prenderà in mano il vostro biglietto da visita e ci giocherà con le dita.

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Costo.

I biglietti da visita possono essere anche molto costosi: il mio consiglio è quello di trovare un giusto equilibrio tra costo, comunicazione e funzionalità. è inutile avere un biglietto da visita up to date se poi si hanno remore a darlo perché “caspita, è un investimento da 5,00 € cad.”.

 

Il corollario dei 10 secondi

Se è corretta la teoria dei sette secondi di Linda Blair, se ne può desumere un interessante corollario: quando diamo a qualcuno il nostro biglietto di presentazione (provate a cronometrare voi stessi) l’attenzione che gli viene dedicata va dai 5 ai 10 secondi. Per raggiungere i 10 secondi ci vogliono il materiale, il peso, il formato, la stampa e il contenuto giusti. Un secondo ciascuno, insomma.

Ma, come cantava il trio (già all’epoca passatello) Morandi-Ruggeri-Tozzi, “Si può dare di più”, perché il biglietto di presentazione deve far nascere una domanda da parte del cliente, una domanda non prevista dal tradizionale copione degli incontri lavorativi, che ci permetta di avere ai suoi occhi fin da subito una personalità distintiva.

Proprio come, quando si incontra una persona per la prima volta, dopo essersene fatti un’idea (vale a dire, come ormai sappiamo, dopo 7 secondi), si è spinti ad approfondire domandando qualcosa di personale oppure no.

 

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FOTOGRAFIE DI ALESSANDRO TOMIELLO - TESTI DI FILIPPO LORO - SITO WEB REALIZZATO DA DANIELE COMELLO e DAVIDE DALLA MORA
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